Genoa-Genoa-Genoa. Poi Milan. E di nuovo Genoa-Genoa-Genoa. "Certo ch’era proprio forte, all’epoca". Quindi ecco la Juventus. "Ah, finalmente". Ancora Milan-Milan. E poi... Pro Vercelli. "E questa, che squadra è?", il ragionevole dubbio d’un bimbo che scopre gli almanacchi. Certe cose deve spiegarle il papà. La prima lezione di storia del calcio, per un piccolo innamorato del pallone, sfogliando l’album delle figurine Panini, è alla voce “albo d’oro”. Sì, perché è lì, già prima che arrivasse Wikipedia a risolvere (non sempre con insindacabile esattezza) tutti i dubbi del nostro tempo con un click, che vien fuori un mito dello sport italiano. La sequenza degli scudetti, nell’anno 1908, scrive per la prima volta il (doppio) nome di questa gloriosa società piemontese che di titoli tricolore, fino al 1922, ne vinse ben sette.
All’Arechi questa sera sfila, e sfida la Salernitana, una leggenda del Belpaese, perché "raccontare la storia della Pro Vercelli vuol dire narrare le vicende del calcio italiano dal primo Novecento fino agli anni Trenta", parola del sito di bandiera del club che solo di recente è tornato su palcoscenici più o meno degni d’una tradizione da regina del football. La definizione è tanto sontuosa quanto ineccepibile, e per ogni papà cui tocca spiegare chi sia quella formazione pluri-campione d’Italia, però così “poco familiare” al pubblico di massa in mezzo a tanto blasone, è quasi dovere morale conoscerne qualche cenno.
Mario Sconcerti, che sulle origini dello sport nazional-popolare ha scritto più d’un libro, dà una lettura semplice, eppure profonda. Annodata tra le radici d’una società polisportiva fondata nel 1887, che cinque anni più tardi s’affiliò alla Federazione Ginnastica e solo nel 1903 istituì la propria sezione calcio. Il segreto dei successi vercellesi, evidentemente, era proprio nella matrice “atletica” del club. Già, perché nelle (poche) altre città italiane dove il pallone cominciava a rotolare “seriamente” si puntava essenzialmente sul “tocco”, mandando in campo la nobiltà per mero diletto, mentre in quel piccolo comune a Est del Piemonte si portava avanti una dura e già semi-professionale preparazione fisica. La quasi invincibile Pro Vercelli, per capirci, correva il doppio rispetto agli avversari, aveva calciatori allenati sullo sprint e alla resistenza, con strutture fisiche superiori. E non è un caso che, mischiando la storia alla leggenda, venga attribuita proprio a uno degli uomini simbolo delle “casacche bianche” dell’epoca, Guido Ara, la paternità del celebre aforisma: "Il calcio non è uno sport per signorine". Quel mediano (benché al tempo i ruoli fossero concetti ancora un po’ astratti, o comunque confusi), così tecnico da esser ribattezzato “l’elegante Guido”, era il leader d’una squadra che sovrastava i rivali nei contrasti e nella forza, al punto che i suoi calciatori si guadagnarono il soprannome di “leoni”.
All’alba degli anni Trenta del Novecento, poi, esplose il talento di Silvio Piola, cui oggi è intitolato lo stadio vercellese, però fu proprio dopo l’addio del suo bomber che la Pro Vercelli cominciò la fase discendente della propria gloriosa e incancellabile parabola. Il tramonto d’un mito, la fine d’un’era e l’inizio d’un calvario, di fatto, interrottosi solo qualche stagione fa, con il ritorno in serie B dopo oltre mezzo secolo. Un vuoto lunghissimo, riempito dai ricordi. E dalle domande di tutti i bambini che, sfogliando l’album Panini, incuriositi “interrogano” i loro papà: "E questa, che squadra è?". Guai a restare senza risposta...Lo riporta il quotidiano Metropolis
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